sabato 26 aprile 2025
Un bel ricordo dell'infanzia. Musica bella.
sabato 15 marzo 2025
Il mio primo giorno di scuola.
Importerà con ogni probabilità a pochi ma sono contento di raccontarlo. L'altra mattina sono ripassato, come mi accade di fare abbastanza spesso quando passeggio, davanti alla mia vecchia scuola elementare. Le ho scattato una foto e allora mi è venuta voglia di scrivere di questa circostanza.
Fu il primo ottobre 1971. Non ricordo sinceramente se quella mattina ci fosse il sole o meno, sembrerà strano ma l'ho dimenticato. È un po' come se il prima fosse assente e che di botta io mi sia ritrovato in braccio a mio padre nel cortile della mia scuola elementare ad ascoltare quale sarebbe stata la mia classe e il mio o la mia insegnante. È strano questo vuoto, anche perché ho ricordi di molto antecedenti al primo giorno di scuola, però è così. Di botto mi ritrovai catapultato verso la scuola senza tanto rendermene conto. Mi ricordo che giorni prima andammo a comprare la cartella, che portavo a spalla; oggi non si usano più: i bambini vanno a scuola come sherpa nepalesi con zainetti carichi di libri come fossero provviste e salmerie insostituibili, noi andavamo con il piccolo sussidiario (forse si chiamava Paese), l'ancor più sottile libro di lettura, due quaderni due, uno a righe e uno a quadretti, l'astuccio con cui feci cinque anni di scuola, dentro i pastelli, una matita, una gomma un temperino. Stop. Non mi pare che non abbiamo avuto storia, opportunità, cultura, scoperte, luce e fantasia.
Non facemmo nessuna foto, per lo meno non mi sembra di averla in casa. In famiglia c'era una moderata per non dire quasi nulla tendenza a solennizzare traguardi, feste, circostanze. Ricordo solo un po' di trasporto al momento in cui acquistammo il necessario.
Quella fu una falsa partenza: mio padre ed io ci recammo a scuola, forse in macchina, entrammo nel cortile dove ho un vago ricordo si trovassero tanti babbi, tante mamme e tanti bimbi, tutti nel loro grembiulino e col fiocco, rispettivamente nero e blu per i maschietti e bianco e rosa per le femminucce. Babbo mi prese in braccio per farmi vedere più lontano. Non so se sperava che io ascoltassi con lui il personaggio (forse era il direttore) che leggeva i nomi dei vari bambini classe per classe, maestro per maestro, sta di fatto che io mi resi conto di ben poco. Capimmo che avremmo dovuto tornare nel pomeriggio perché io sarei andato in una delle classi che avrebbero iniziato la scuola nel pomeriggio. Sì, perché noi facevamo doppi turni; eravamo talmente tanti che dovevamo usare la scuola tutto il giorno, tanti la mattina e tanti il pomeriggio, a mesi alterni. Infatti fino alla quarta elementare (quando ci spostarono in un altro plesso, vicinissimo a casa mia; oggi ospita la palestra di Fausto e Luigi Giorgini) per me la scuola ad ottobre fu sempre il pomeriggio, novembre la mattina e così via. Eravamo davvero centinaia e centinaia di bambini nella mia città, noi del 1965: l'anno 1964 fu quello in cui nacquero più bambini in Italia, il nostro quello immediatamente successivo anche in classifica.
Dunque tornammo a casa per il falso allarme. Ricordo un minimo di stupore nel viso di mamma; passai la mattina un po' sospeso, toltomi il grembiulino da "remigino" (si diceva così ai bimbi che avrebbero frequentato la prima elementare), forse giocai, feci pranzo e tornai nel pomeriggio a scuola piuttosto trepidante. Erano le due e mezza circa. Mi ricordo la luce del pomeriggio e la classe che mi sembrava enorme, tutta tappezzata di quelli che scoprii erano i cartelli con le lettere ed un disegnino con qualcosa il cui nome cominciasse con quella lettera: la a di ape, la b di birillo, la i di imbuto, la z di zappa... C'era anche una presenza materna, quella della mia maestra che si chiamava Anna Traini, una signora sorridente ed affettuosa. Eravamo tutti maschietti, ed in mezzo a loro trovai un mio amichetto vicino di casa con cui i miei genitori mi avevano fatto familiarizzare poco tempo prima, Marino Palanca. Mi pare che ci misero di banco insieme, ne fui contento, fu una presenza rassicurante. Siamo rimasti sempre amici.
La scuola era ed è intitolata a Benedetto Caselli, un sambenedettese che perse la vita durante la I Guerra Mondiale. Qui ne trovate la storia. È strano ma oggi tutti chiamano quella scuola "le Moretti", perché sono in via Gino Moretti. Io però ricordo bene l'altro nome e la storia di quest'uomo.
Ci sarebbe altro da raccontare, per ora mi fermo qui.
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Aggiornamento del 22 giugno 2025:
domenica 2 marzo 2025
Frammenti della mia filosofia - 78 - Chesterton, infanzia, una sorta di luce bianca su tutto.
Devo cercare di spiegare in qualche modo che cosa intendo dire quando dico che la mia infanzia è stata di tipo, o qualità, del tutto diversa dal resto della mia esistenza, immeritatamente piacevole e gioiosa.
Di questa qualità positiva l'attributo più generale era la chiarezza. È qui che differisco, per esempio, da Stevenson, che pure ammiro vivamente, e che parla del bambino come se si muovesse con la testa tra le nuvole. Egli parla del bambino come se fosse normalmente in un sogno ad occhi aperti, in cui non riesce a distinguere la fantasia dai fatti. Ora, bambini e adulti sono entrambi fantasiosi a volte; ma non è questo che, nella mia mente e nella mia memoria, distingue gli adulti dai bambini. Il mio è un ricordo di una sorta di luce bianca su tutto, che ritagliava le cose in modo molto chiaro e ne sottolineava piuttosto la solidità. Il punto è che la luce bianca aveva una sorta di meraviglia, come se il mondo fosse nuovo come me; ma non che il mondo fosse altro che un mondo reale.
Gilbert Keith Chesterton, Autobiografia (mia traduzione)
sabato 21 settembre 2024
La quiete dopo la tempesta di Giacomo Leopardi vista con i miei occhi
Ho trovato quest'immaginetta su internet, non ricordo esattamente dove, però come l'ho vista ho pensato: è esattamente come ho sempre visto quella prima parte della poesia nella mia immaginazione. Per essere più preciso, la mia fervida fantasia mi ha sempre fatto immaginare la gallina che faceva il passo militare, o meglio "il passo dell'oca"... Non lo dico come battuta (gallina che fa il passo dell'oca), anche se come battuta funziona, è che l'ho sempre pensato.
Questa poesia credo di averla sentita la prima volta alle medie, ma all'epoca ero ancora un infante come d'altronde adesso; essendomisi stampata in testa un'idea del mondo intero come quello del sussidiario e del libro di lettura delle mie scuole elementari, e pure i viaggetti domenicali a Spinetoli da mia nonna, e qualche rara gita a Loreto e a Recanati da piccolino, tutto per me è ancora e sempre come in questa immaginetta. Tutto: mare, monti, case, campagna, piazze, alberi, bambini, vecchietti, uomini, donne, finestre, nuvole, galline, paperi nello stagno, stracci, ossi, come diceva il mio Chesterton... la questione nasce quando il mondo intorno a me non è esattamente come dovrebbe essere: è lì che mi metto in movimento e comincio la battaglia.
Io penso che il giovane Giacomo Leopardi, che affettuosamente chiamo Giacomino, anche lui avesse grandi e buoni desideri, e mi ricorda i desideri che avevo quando io ero bambino e ragazzo. Essi non sono mai venuti meno di una virgola nella loro intensità, perché Nostro Signore mi ha sempre fatto il dono e la grazia di ricordarmeli ed io da parte mia ho cercato di tenerli sempre desti e vivi come potevo.
A volte mi chiedo come mai questa poesia finisca non gloriosamente come inizia, con la gloria luminosa del quotidiano. Giacomino, mi dico sempre, se tu avessi avuto un buon amico a fianco! Pensa cosa avresti detto e fatto, se tanto mi dà tanto! So che sei morto in grazia di Dio, coi sacramenti, e questo è un gran bene, ma per questo sono certo che hai trovato il Buon Amico lassù, quello che ti faceva cominciare bene le poesie.
Per conto mio continuo a dire a tutti: fatevi dei buoni amici che vi facciano essere sempre come il bimbo che immagina o guarda la gallina, la pioggia, l'erbaiuolo che rinnova di sentiero in sentiero il grido giornaliero (mamma mimava per me improvvisando questa scena), gli augelli, il fiume nella valle, il romorio, l'umido cielo, l'artigiano con l'opra in man cantando, la femminetta a cor dell'acqua, il sole che sorride per li poggi, la famiglia che apre le finestre, i sonagli e il carro che stride.
Sennò prendete il primo che passa e pagatelo perché lo faccia esattamente e fategli causa se non lo fa esattamente.
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Aggiornamento del 22 giugno 2025:
domenica 19 novembre 2023
Tre gassose.
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Eccola com'era...! |
Il rituale era semplice: partivamo da casa a piedi, da via Carducci 29, e raggiungevamo la stazione ferroviaria, non troppo distante. Lì prendevamo il bus urbano, che mia madre ancora chiamava "il postale". Era verde, mi pare che la ditta che faceva il servizio si chiamasse Romanelli. Mi piaceva quell'ondeggiare appesi al palo, e il campanello che mamma suonava per ricordare all'autista la nostra fermata. Il bigliettaio con la borsa di cuoio nero, la camicia azzurra e il berretto, bello in carne, incastrato in quella specie di scranno da cui distribuiva pacifico i bigliettini.
Andavamo allo stabilimento "Il Delfino", sottotitolato in sambenedettese "Lu Talafé". Avevamo l'ombrellone e la cabina, arrivavamo e mamma mi diceva: "Aspetta un po' prima di farti il bagno...". Mai capita la ragione di quest'attesa, ma comunque rendeva il bagno più - appunto - atteso. So che oggi è una cosa sconosciuta e incomprensibile ai più. Finalmente arrivava l'ora del bagno, tuffi, giochi con la sabbia, tuffi ancora, e poi si usciva, asciugamano, cambio del costumino, pizzetta bianca e gassosa.
La gassosa era ovviamente la gassosa Roncarolo, prodotta a San Benedetto del Tronto dalla ditta di colui che fu uno dei più rispettati presidenti della Sambenedettese Calcio. Ricordo le bottiglie trasparenti, le prime erano rigate all'esterno, con la scritta impressa sul vetro, poi più avanti divennero lisce. È facile dire che oggi mi sembra di risentirne il sapore. Con la cannuccia d'ordinanza (erano incartate e speravo sempre mi capitasse il colore preferito), era il momento più bello della mattina passata al mare, poco prima di andare a casa per il pranzo.
La gassosa la compravamo al mare, allo stabilimento, costava cinquanta lire credo. Si andava vicino alle cabine dove c'era un frigorifero a pozzetto di quelli alimentati da quelle colonne di ghiaccio che una volta si fabbricavano vicino al porto, quindi non azionati elettricamente. C'era un ombrellone o una specie di tettoia, e lì c'era lui, l'Unglesë.
Questo nome stava scritto in piccolo in un angolo del già citato cartello dello stabilimento: "Da l'Unglesë".
"Da L'Unglèsë" e "Lu Talafé" davano un senso di esotico a tutto, per me bambino. La persona citata merita poi un discorso a parte.
L'Unglesë doveva essere un marinaio in pensione. Per me era alto, non so quanto lo fosse veramente, e la sua figura torreggiava burbera sulla spiaggia. Pantaloncini corti di tipo militare beige scoloritissimi tanto da sembrare un reduce di El Alamein, canottiera di lana scura tutta l'estate (mamma la chiamava "la majë dë la salótë", la maglia della salute... mah), pelle raggrinzita del colore del cuoio, stempiato, la bocca perennemente piegata verso il basso in una smorfia non si capiva se scorbutica o sprezzante o semplicemente perché quella era la piega della sua bocca, e gli occhi coperti da due palpebre così spesse che non si intuiva mai se vegliasse o stesse dormendo. Ma non dormiva.
Girava con un motorino 50 con dei resti di colore rosso, tipo un Guzzino o qualcosa del genere, con una cassetta del pesce di color crema presa al mercato ittico del porto e munita dello stemma comunale rosso e blu, legata con una specie di "ragno", fisso, sempre, una specie di portapacchi artigianale molto diffuso dalle nostre parti.
E poi quel nome...
Non si capiva se era dovuto al fatto che biascicasse qualche parola di inglese, o se tra i mille mari navigati ne avesse visti anche dei colori dell'Union Jack o più semplicemente se parlasse in un modo talmente incomprensibile da sembrare appunto inglese. Io avrei giurato si trattasse della terza ipotesi.
Non ne ho mai saputo il vero nome.
Allora, dopo il bagnetto e tutto il resto andavi da lui con le cinquanta lire in mano, chiedevi una gassosa, lui la tirava fuori dal pozzetto con il ghiaccio a colonna e te la stappava seduta stante con uno stappabottiglie appeso ad uno spago da qualche parte, e poi ti ci schiaffava dentro la cannuccia, e tu pago di tanto piacere andavi via felice. Quasi sempre.
Noi bambini sambenedettesi sapevamo che dovevi limitarti a dirgli il numero delle gazzose che volevi, e lui ti accontentava, togliendoti di mano gli spicci che ti aveva dato mamma, brusco come tutto era brusco in lui. D'altronde si capiva che non era tipo da intavolare conversazioni.
I problemi nascevano da richieste "originali" o da altri intoppi.
Quella mattina fu segnata da un piccolissimo intoppo.
Eravamo in fila indiana davanti a lui. Davanti a me c'era una bambina dai capelli scuri, piccolina, partita fiduciosa. Io dietro con il mio soldino.
La piccola si avvicina e chiede a L'Unglesë nel suo parlare: "... tre gaszòszeee..." (tre gazzose pronunciate con accento di qualsivoglia dialetto italiano di derivazione celtica: lombardo, veneto, "dell'Àlditalië", ossia dell'Alta Italia, eccetera...).
L'Unglesë: "Chë vu'?!?".
La povera bambina prova ad insistere con voce che si fa tremante: "Tre gaszòszeee!".
Io dietro di lei - forse ero più grande di lei, comunque non avevo più di sei anni, ne sono certo - sarei anche intervenuto, ma prudentemente tacqui.
L'Unglèsë insiste col medesimo tono, forse leggermente più perentorio: "Chë vuuuu'?!?".
La poveraccia gli fa, ormai in lacrime: "Tre gaszòseeee!!!".
Lui la riguarda con uno degli occhi normalmente semichiusi che si fa leggermente più aperto, lei a quel punto scappa a gambe levate piangendo verso la mamma. Io dietro: "Una gassosa!!!" con un tono da sergente di giornata, forte e chiaro, e con le cinquanta lire sciolte sulla manina. Gassosa schiaffata nell'altra mano con la cannuccia d'ordinanza e via, evaporo con nonchalance ma leggermente scosso anche io. Però un po' mi viene da ridere, poi.
Sono passati più di cinquanta anni ma ho ancora vivo davanti agli occhi l'episodio e ci rido, ci rido a crepapelle tutte le volte che lo rivedo scorrere nella mia mente immersa nel sole dell'infanzia. Il nostro eroe dei sette mari che era nato e cresciuto ruvido, e sempre ci rimase, né più e né meno di tanti nostri concittadini, per me rappresenta una specie di fumetto, di ritratto dei nostri marinai, abituati più a discutere col mare e col vento e a gridare potenti maledizioni a lu scijò. Razza in via d'estinzione, purtroppo. La bambina chissà dove sarà, forse ancora scappa, poverina. Io sono qui, contento di essere nato e cresciuto in questo porto di mare pieno di sole e di una certa sana ignoranza.
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San Benedetto del Tronto e la sua spiaggia in quegli anni |
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martedì 20 dicembre 2022
Dizionario della mia lingua, il sambenedettese - 5 | Rëbbëvéssë (e mo vi ci voglio).
Rëbbëvéssë: risuscitare, rinascere, per estensione di chi si ricrea tanto da sembrare nato nuovamente.
L'etimologia? È qua che vi volevo! La sto cercando da anni, ma non sono mai riuscito a formularla in alcun modo. Se qualcuno dovesse saperla o scoprirla, lo accoglierò a braccia aperte.
Molto usato a San Benedetto, ma anche nella Vallata del Tronto, a quanto pare.
È un termine talmente lontano dai suoi significati italiani che tutte le volte che lo sento mi suscita grande ilarità e contentezza. Il suono stesso provoca allegria, una specie di muggito, qualcosa di rustico e positivo, beneaugurante e allegro.
Ho un bellissimo ricordo della mia infanzia, nell'epoca in cui non si mandavano prosaici sms ma poeticissime cartoline illustrate. Io ero molto piccolo, sapevo appena leggere. Arrivò una cartolina da Chianciano Terme; zio Tonino, fantasista eclettico in quanto veterinario, pittore e fondamentalmente uomo di spettacolo (bastava stare con lui e ci si divertiva), era andato a fare le terme e dall'amena località toscana ci inviò il seguente testo:
Un saluto a tutti, rinfrancati e ribbeviti
Per un bambino piccolo come me, di sei o sette anni, vedere scritta una parola in dialetto su una cartolina era di per sé un motivo di riso notevole. La stessa scrittura, un vago elegante corsivetto, era di per sé ridanciana. Ancora adesso ci ripenso e rido...
venerdì 16 dicembre 2022
Maggio 1974, forza Samb!!!
Ho trovato questo bell'articolo che rievoca la promozione della Sambenedettese in serie B dopo il campionato 1973 - 1974. Mi ha fatto ricordare tante cose, la gioia semplice di tutti noi, piccoli e grandi, per questo bel traguardo. Io avevo nove anni. Racconta bene, sia dal punto di vista calcistico che storico che sociale:
https://www.ilmartino.it/2020/02/samb-ravenna-la-storica-sfida-del-74/
Questa foto rende bene l'idea del clima che si viveva in quei giorni, allora l'ho presa a prestito dall'articolo.
Mesi fa ho scritto questo post. Io non sono un tifoso, ma quando la gente è contenta e fissata per cose buone, me ne rallegro, partecipo. Quando serve, sono anche critico verso i miei concittadini, ma alla fine sono sempre grato al Padreterno per avermi fatto nascere qui:
https://marcosermarini.blogspot.com/2022/02/la-samba-samba.html
Una cosa così, per ridere.
domenica 22 maggio 2022
Leopardi. La necessità di una fede ragionevole - di Giovanni Fighera | da La Nuova Bussola Quotidiana.
Negli anni, progressivamente, ho riscoperto l'importanza di Giacomo Leopardi, di alcuni dei suoi Canti che lessi sin da piccolo (dalle scuole medie in poi) e che oggi trovo bellissimi (avete presenti quelle parole che impariamo a memoria, magari non ne abbiamo tanta voglia, però pian piano trovano casa dentro di noi e riemergono quando serve, se glielo permettiamo...?), e uno dei miei desideri e delle mie speranze è che quest'uomo abbia abbracciato Gesù in qualche momento salvifico della sua vita. Che ci posso fare se penso all'erbaiuol, a questa siepe, a quello infinito silenzio, all'artigiano con l'opra in man, ai fanciulli gridando, agli interminati spazi e ai sovrumani silenzi, alla gallina tornata in su la via e le sento cose mie?
Ho letto questo articolo di Giovanni Fighera e ne trovo interessanti alcune considerazioni. Lo propongo ai lettori di questo blog perché ci fa leggere i desideri più profondi e più veri, così seri, dell'animo di Giacomo Leopardi.
Marco Sermarini
La ragione al suo apice si apre alla fede, spalanca la sua finestra sul Mistero. Così Leopardi scrisse nello Zibaldone che le «illusioni» – ciò che il cuore desidera – «non son vere se non rispetto a Dio e a un’altra vita»
https://lanuovabq.it/it/leopardi-la-necessita-di-una-fede-ragionevole
venerdì 29 aprile 2022
Frammenti della mia filosofia - 14 - Chesterton, infanzia, innocenza, ripetutamente su questo blog.
Felice è colui che ama ancora ciò che amava all'asilo: non è stato spezzato in due dal tempo; non sono due uomini, ma uno solo, ed ha salvato non solo la sua anima ma la sua vita.
mercoledì 16 marzo 2022
Un raccontino sulla mia infanzia e sulla mia maturità.
A volte i ricordi fanno capolino nella nostra vita ma si trasformano in carne ed ossa all'improvviso, miracolosamente, e ti lasciano un sapore di gratitudine.
Nove anni fa di questi tempi mi recai con famiglia ed amici a Roma. Dovevamo fare un bel convegno su Chesterton, con le scuole Chesterton americana e italiana che si sarebbero incontrate per la prima volta. Insomma, una bella cosa. Organizziamo di andare a dormire in un istituto di suore lì a Roma. Mi dicono che c'è una suora che vive lì e che è la zia di una di noi, per cui ci facilita il compito.
Arriviamo, non ricordo che giorno fosse, mi pare un venerdì. Entriamo nell'istituto e vedo che non sono suore a me del tutto ignote. Ad attenderci nell'atrio c'è una specie di manichino (più che una statua) che raffigura le suore nel loro vecchio abito. Ah, le conosco, faccio a mia moglie! Sono le Figlie della Carità di San Vincenzo de' Paoli e di Santa Luisa di Marillac, a San Benedetto meglio note come "lë monëchë cappëllótë", cioè le monache cappellute, per via di un bizzarro copricapo che io ricordo di aver visto da bambino piccolissimo nelle foto che le ritraeva.
Allora mi metto a raccontare a mia moglie e alle mie figlie più piccole che quelle erano proprio le suore che stavano all'Asilo Merlini quando io ero bambino, e che le frequentava la loro nonna, mia mamma, da ragazza, quando imparava a ricamare le belle tovaglie e altre stoffe che ancora girano in casa. La sua insegnante del laboratorio era Suor Maddalena, impressa indelebilmente nei miei ricordi per i racconti di mamma.
Veramente io all'asilo ci sono andato proprio poco, non più di qualche giorno: stavo bene a casa, con mamma, e non ci volli più andare. Le suore erano buonissime, ma la cosa non mi entusiasmava. C'erano delle aiutanti un po' burbere, ma non mi creavano problema, erano le classiche donne sambenedettesi.
Pur essendoci andato poco, ne ho una memoria vivissima. Ricordo bene anche di tre amici che ho ritrovato al liceo, Roberto, Luca e Leonardo, con loro sono sempre rimasto in contatto affettuoso. Ricordo le suore, alcuni bambini in particolare, il luogo (qualche anno fa ci tornai con mia moglie per via di un nostro centro estivo, che flash!).
Va bene, dopo un po' io chiacchiero da solo, per cui taccio, ma queste cose mi rinfrescano il cuore, come tutta la mia infanzia piena di sole. Niente, prendiamo il largo e lascio le suore nel loro convento romano, facciamo tutto quel che dobbiamo fare e arriva la sera, buonanotte a tutti.
La mattina ci alziamo per la colazione. Mangiamo i biscottini, il latte e caffè. D'un tratto vedo aggirarsi nella sala da pranzo una suorina piccola piccola. Ha un che di familiare per me. La guardo bene senza farmi notare. Qualcosa si muove nei ricordi, come un filo che afferro e che cerco di non perdere per vedere dove è legato... Poi un fulmine: ma è lei! Faccio a mia moglie: "È lei!" e mia moglie: "È lei chi?". Le vado dietro, la seguo vicino ai bricchi del latte, prendo un po' di coraggio e le dico: "Scusi, sorella, ma lei è mai stata a San Benedetto del Tronto all'Asilo Merlini?". La suorina mi guarda e mi dice: "Sì, tanti anni fa, all'asilo..." E io: "Ma allora è lei! Lei insegnava ai bambini più piccoli!" e mi metto a raccontarle una storia un po' squinternata, io che invece di andare dietro a Suor Gabriella, la mia maestra (un viso bellissimo), mi incanto a sentire lei che parlava a un gruppo di bambini dell'altra classe fermi davanti ad una statua della Madonnina, la classe dei fiocchi... non mi ricordo più, ognuna delle tre classe aveva un fiocco di colore diverso sul grembiulino: azzurri, gialli e... non ricordo più!
Lei mi dice che sì, era stata maestra lì. La guardo bene in faccia e mi sembra di rivedere lei, la Madonnina e i miei occasionali compagnucci, tutti calamitati da lei... Oserei dire che è sempre uguale a quel giorno. Poi mi ricordo che quel giorno di botta mi svegliai dall'incanto perché arrivò una delle aiutanti che mi strattonò leggermente sulla spalla e mi disse: "Dua stivë tó? La maèstra ttónë sta jecchë!" e mi riportò dalla mia maestra. Questa è una delle prime conferme della mia perdurante tendenza a... stare spesso con la testa da un'altra parte, gli inglesi la chiamerebbero absent-mindedness; il mio amico Chesterton, che veniva ritenuto un po' assente, replicava che lui non era absent-minded, ma che era present-minded in qualcos'altro... ecco, mi associo.
La suorina, di cui ho anche dimenticato il nome, mi disse che Suor Gabriella c'era ancora, stava in un convento della Toscana se non ricordo male. Mi avrebbe fatto piacere rivederla. In ogni caso la ringraziai tantissimo e le dissi di salutarmela tanto, anche se era impossibile si ricordasse di me.
I ricordi fanno capolino e diventano suore, amici, momenti di ansia, di felicità, di incanto, e si trasformano in riconoscenza.
Nella foto sotto il fantascientifico copricapo delle "monëchë cappëllótë".
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Aggiornamento del 14 Gennaio 2023:
venerdì 4 febbraio 2022
Lo mangiavo da piccolo...!
giovedì 26 novembre 2020
Giacomino
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Aggiornamento del 14 Gennaio 2023:
venerdì 18 settembre 2020
L'uccellino della radio - Guardate che ho ritrovato!
Felice è colui che ama ancora ciò che amava all'asilo: non è stato spezzato in due dal tempo; non sono due uomini, ma uno solo, ed ha salvato non solo la sua anima ma la sua vita.
giovedì 16 luglio 2009
Lo sbarco sulla luna - I miei ricordi (che probabilmente non interesseranno a nessuno, ma io lo dico...): astronavi, scuola, figli, hobbit...




