batteżżière s. m. [der. di battezzare]. – Sacerdote che ha l’incarico di battezzare, in vece del parroco; più comunem. detto battista.
venerdì 27 giugno 2025
Dizionario della mia lingua, il sambenedettese - 8 - Termine dall'etimologia misteriosa!
sabato 26 aprile 2025
Un bel ricordo dell'infanzia. Musica bella.
sabato 15 marzo 2025
Il mio primo giorno di scuola.
Importerà con ogni probabilità a pochi ma sono contento di raccontarlo. L'altra mattina sono ripassato, come mi accade di fare abbastanza spesso quando passeggio, davanti alla mia vecchia scuola elementare. Le ho scattato una foto e allora mi è venuta voglia di scrivere di questa circostanza.
Fu il primo ottobre 1971. Non ricordo sinceramente se quella mattina ci fosse il sole o meno, sembrerà strano ma l'ho dimenticato. È un po' come se il prima fosse assente e che di botta io mi sia ritrovato in braccio a mio padre nel cortile della mia scuola elementare ad ascoltare quale sarebbe stata la mia classe e il mio o la mia insegnante. È strano questo vuoto, anche perché ho ricordi di molto antecedenti al primo giorno di scuola, però è così. Di botto mi ritrovai catapultato verso la scuola senza tanto rendermene conto. Mi ricordo che giorni prima andammo a comprare la cartella, che portavo a spalla; oggi non si usano più: i bambini vanno a scuola come sherpa nepalesi con zainetti carichi di libri come fossero provviste e salmerie insostituibili, noi andavamo con il piccolo sussidiario (forse si chiamava Paese), l'ancor più sottile libro di lettura, due quaderni due, uno a righe e uno a quadretti, l'astuccio con cui feci cinque anni di scuola, dentro i pastelli, una matita, una gomma un temperino. Stop. Non mi pare che non abbiamo avuto storia, opportunità, cultura, scoperte, luce e fantasia.
Non facemmo nessuna foto, per lo meno non mi sembra di averla in casa. In famiglia c'era una moderata per non dire quasi nulla tendenza a solennizzare traguardi, feste, circostanze. Ricordo solo un po' di trasporto al momento in cui acquistammo il necessario.
Quella fu una falsa partenza: mio padre ed io ci recammo a scuola, forse in macchina, entrammo nel cortile dove ho un vago ricordo si trovassero tanti babbi, tante mamme e tanti bimbi, tutti nel loro grembiulino e col fiocco, rispettivamente nero e blu per i maschietti e bianco e rosa per le femminucce. Babbo mi prese in braccio per farmi vedere più lontano. Non so se sperava che io ascoltassi con lui il personaggio (forse era il direttore) che leggeva i nomi dei vari bambini classe per classe, maestro per maestro, sta di fatto che io mi resi conto di ben poco. Capimmo che avremmo dovuto tornare nel pomeriggio perché io sarei andato in una delle classi che avrebbero iniziato la scuola nel pomeriggio. Sì, perché noi facevamo doppi turni; eravamo talmente tanti che dovevamo usare la scuola tutto il giorno, tanti la mattina e tanti il pomeriggio, a mesi alterni. Infatti fino alla quarta elementare (quando ci spostarono in un altro plesso, vicinissimo a casa mia; oggi ospita la palestra di Fausto e Luigi Giorgini) per me la scuola ad ottobre fu sempre il pomeriggio, novembre la mattina e così via. Eravamo davvero centinaia e centinaia di bambini nella mia città, noi del 1965: l'anno 1964 fu quello in cui nacquero più bambini in Italia, il nostro quello immediatamente successivo anche in classifica.
Dunque tornammo a casa per il falso allarme. Ricordo un minimo di stupore nel viso di mamma; passai la mattina un po' sospeso, toltomi il grembiulino da "remigino" (si diceva così ai bimbi che avrebbero frequentato la prima elementare), forse giocai, feci pranzo e tornai nel pomeriggio a scuola piuttosto trepidante. Erano le due e mezza circa. Mi ricordo la luce del pomeriggio e la classe che mi sembrava enorme, tutta tappezzata di quelli che scoprii erano i cartelli con le lettere ed un disegnino con qualcosa il cui nome cominciasse con quella lettera: la a di ape, la b di birillo, la i di imbuto, la z di zappa... C'era anche una presenza materna, quella della mia maestra che si chiamava Anna Traini, una signora sorridente ed affettuosa. Eravamo tutti maschietti, ed in mezzo a loro trovai un mio amichetto vicino di casa con cui i miei genitori mi avevano fatto familiarizzare poco tempo prima, Marino Palanca. Mi pare che ci misero di banco insieme, ne fui contento, fu una presenza rassicurante. Siamo rimasti sempre amici.
La scuola era ed è intitolata a Benedetto Caselli, un sambenedettese che perse la vita durante la I Guerra Mondiale. Qui ne trovate la storia. È strano ma oggi tutti chiamano quella scuola "le Moretti", perché sono in via Gino Moretti. Io però ricordo bene l'altro nome e la storia di quest'uomo.
Ci sarebbe altro da raccontare, per ora mi fermo qui.
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Aggiornamento del 22 giugno 2025:
sabato 10 febbraio 2024
Giornata del Ricordo 2024. Qualche pensiero.
Oggi, Giornata del Ricordo, il mio pensiero va a mio suocero Arcangelo e alla sua famiglia che fuggirono dall'Istria, e a tutti quelli che sono costretti dalle ideologie mortifere a fuggire dalla loro patria. Ne sono talmente tanti che se facessi un elenco farei di sicuro torto a qualcuno.
Per quanto mi riguarda, penso che se i cosiddetti partigiani comunisti jugoslavi e i loro compari italiani avessero fatto "meglio" il loro lavoro, la mia vita sarebbe stata molto molto diversa, ovviamente in peggio. Qualcuno dirà: ma che ne sai? Io rispondo: invece lo so. Nostro Signore mi ha fatto molti grandi doni, tra cui la mia cara moglie ed i miei cari figli.
Per cui oggi ringrazio Iddio, prego per le vittime e prego anche per i loro carnefici, prego e lavoro perché ovunque si possa instaurare il Regno di Nostro Signore Gesù Cristo, la qual cosa risolverebbe tutti i conflitti.
Una volta lo dissi ai miei amici in Terrasanta, basterebbe svegliarci cinque minuti prima degli altri... ma questa è un'altra storia, molto lunga da raccontare.
domenica 19 novembre 2023
Tre gassose.
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Eccola com'era...! |
Il rituale era semplice: partivamo da casa a piedi, da via Carducci 29, e raggiungevamo la stazione ferroviaria, non troppo distante. Lì prendevamo il bus urbano, che mia madre ancora chiamava "il postale". Era verde, mi pare che la ditta che faceva il servizio si chiamasse Romanelli. Mi piaceva quell'ondeggiare appesi al palo, e il campanello che mamma suonava per ricordare all'autista la nostra fermata. Il bigliettaio con la borsa di cuoio nero, la camicia azzurra e il berretto, bello in carne, incastrato in quella specie di scranno da cui distribuiva pacifico i bigliettini.
Andavamo allo stabilimento "Il Delfino", sottotitolato in sambenedettese "Lu Talafé". Avevamo l'ombrellone e la cabina, arrivavamo e mamma mi diceva: "Aspetta un po' prima di farti il bagno...". Mai capita la ragione di quest'attesa, ma comunque rendeva il bagno più - appunto - atteso. So che oggi è una cosa sconosciuta e incomprensibile ai più. Finalmente arrivava l'ora del bagno, tuffi, giochi con la sabbia, tuffi ancora, e poi si usciva, asciugamano, cambio del costumino, pizzetta bianca e gassosa.
La gassosa era ovviamente la gassosa Roncarolo, prodotta a San Benedetto del Tronto dalla ditta di colui che fu uno dei più rispettati presidenti della Sambenedettese Calcio. Ricordo le bottiglie trasparenti, le prime erano rigate all'esterno, con la scritta impressa sul vetro, poi più avanti divennero lisce. È facile dire che oggi mi sembra di risentirne il sapore. Con la cannuccia d'ordinanza (erano incartate e speravo sempre mi capitasse il colore preferito), era il momento più bello della mattina passata al mare, poco prima di andare a casa per il pranzo.
La gassosa la compravamo al mare, allo stabilimento, costava cinquanta lire credo. Si andava vicino alle cabine dove c'era un frigorifero a pozzetto di quelli alimentati da quelle colonne di ghiaccio che una volta si fabbricavano vicino al porto, quindi non azionati elettricamente. C'era un ombrellone o una specie di tettoia, e lì c'era lui, l'Unglesë.
Questo nome stava scritto in piccolo in un angolo del già citato cartello dello stabilimento: "Da l'Unglesë".
"Da L'Unglèsë" e "Lu Talafé" davano un senso di esotico a tutto, per me bambino. La persona citata merita poi un discorso a parte.
L'Unglesë doveva essere un marinaio in pensione. Per me era alto, non so quanto lo fosse veramente, e la sua figura torreggiava burbera sulla spiaggia. Pantaloncini corti di tipo militare beige scoloritissimi tanto da sembrare un reduce di El Alamein, canottiera di lana scura tutta l'estate (mamma la chiamava "la majë dë la salótë", la maglia della salute... mah), pelle raggrinzita del colore del cuoio, stempiato, la bocca perennemente piegata verso il basso in una smorfia non si capiva se scorbutica o sprezzante o semplicemente perché quella era la piega della sua bocca, e gli occhi coperti da due palpebre così spesse che non si intuiva mai se vegliasse o stesse dormendo. Ma non dormiva.
Girava con un motorino 50 con dei resti di colore rosso, tipo un Guzzino o qualcosa del genere, con una cassetta del pesce di color crema presa al mercato ittico del porto e munita dello stemma comunale rosso e blu, legata con una specie di "ragno", fisso, sempre, una specie di portapacchi artigianale molto diffuso dalle nostre parti.
E poi quel nome...
Non si capiva se era dovuto al fatto che biascicasse qualche parola di inglese, o se tra i mille mari navigati ne avesse visti anche dei colori dell'Union Jack o più semplicemente se parlasse in un modo talmente incomprensibile da sembrare appunto inglese. Io avrei giurato si trattasse della terza ipotesi.
Non ne ho mai saputo il vero nome.
Allora, dopo il bagnetto e tutto il resto andavi da lui con le cinquanta lire in mano, chiedevi una gassosa, lui la tirava fuori dal pozzetto con il ghiaccio a colonna e te la stappava seduta stante con uno stappabottiglie appeso ad uno spago da qualche parte, e poi ti ci schiaffava dentro la cannuccia, e tu pago di tanto piacere andavi via felice. Quasi sempre.
Noi bambini sambenedettesi sapevamo che dovevi limitarti a dirgli il numero delle gazzose che volevi, e lui ti accontentava, togliendoti di mano gli spicci che ti aveva dato mamma, brusco come tutto era brusco in lui. D'altronde si capiva che non era tipo da intavolare conversazioni.
I problemi nascevano da richieste "originali" o da altri intoppi.
Quella mattina fu segnata da un piccolissimo intoppo.
Eravamo in fila indiana davanti a lui. Davanti a me c'era una bambina dai capelli scuri, piccolina, partita fiduciosa. Io dietro con il mio soldino.
La piccola si avvicina e chiede a L'Unglesë nel suo parlare: "... tre gaszòszeee..." (tre gazzose pronunciate con accento di qualsivoglia dialetto italiano di derivazione celtica: lombardo, veneto, "dell'Àlditalië", ossia dell'Alta Italia, eccetera...).
L'Unglesë: "Chë vu'?!?".
La povera bambina prova ad insistere con voce che si fa tremante: "Tre gaszòszeee!".
Io dietro di lei - forse ero più grande di lei, comunque non avevo più di sei anni, ne sono certo - sarei anche intervenuto, ma prudentemente tacqui.
L'Unglèsë insiste col medesimo tono, forse leggermente più perentorio: "Chë vuuuu'?!?".
La poveraccia gli fa, ormai in lacrime: "Tre gaszòseeee!!!".
Lui la riguarda con uno degli occhi normalmente semichiusi che si fa leggermente più aperto, lei a quel punto scappa a gambe levate piangendo verso la mamma. Io dietro: "Una gassosa!!!" con un tono da sergente di giornata, forte e chiaro, e con le cinquanta lire sciolte sulla manina. Gassosa schiaffata nell'altra mano con la cannuccia d'ordinanza e via, evaporo con nonchalance ma leggermente scosso anche io. Però un po' mi viene da ridere, poi.
Sono passati più di cinquanta anni ma ho ancora vivo davanti agli occhi l'episodio e ci rido, ci rido a crepapelle tutte le volte che lo rivedo scorrere nella mia mente immersa nel sole dell'infanzia. Il nostro eroe dei sette mari che era nato e cresciuto ruvido, e sempre ci rimase, né più e né meno di tanti nostri concittadini, per me rappresenta una specie di fumetto, di ritratto dei nostri marinai, abituati più a discutere col mare e col vento e a gridare potenti maledizioni a lu scijò. Razza in via d'estinzione, purtroppo. La bambina chissà dove sarà, forse ancora scappa, poverina. Io sono qui, contento di essere nato e cresciuto in questo porto di mare pieno di sole e di una certa sana ignoranza.
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San Benedetto del Tronto e la sua spiaggia in quegli anni |
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domenica 13 febbraio 2022
La Samba Samba e il Pontino Lungo.
Quando ero piccolo, mio padre a volte mi portava a vedere la partita di calcio della Sambenedettese, o meglio della Samba. Quando la Samb fu promossa in serie B al termine del campionato 1973 - 1974, andai spessissimo a vederla. Mi ricordo il gran pavese di bandiere rossoblu di cui era ornata la nostra cittadina. Un palazzo vicino alla stazione era addirittura foderato interamente di rossoblu su una parete, e il bandierone portava una B al centro. Tanta gioia, tanta allegria.
Mi ricordo che il passaggio obbligato per arrivare allo stadio comunale "Fratelli Ballarin" era il famoso Pontino Lungo, che scorreva sotto i binari della ferrovia dalla zona di piazza San Giovanni Battista verso il porto. Si sentiva l'odore della muffa e del metallo bagnato, per terra c'era sempre qualche piccola pozzanghera d'acqua, e ricordo che ai due capi del piccolo tunnel, bassissimo, c'erano due piloncini di metallo per impedire che ci si entrasse con dei mezzi (mi sono sempre chiesto: quali?). I passi delle persone facevano rimbombare con un suono quasi metallico questo passaggio per molti obbligato (di certo per noi che abitavamo più vicini alla Nazionale lo era), ed era il momento in cui il flusso dei tifosi cominciava ad unirsi in uno o due arterie, le due vie che collegavano lo stadio al centro, via Dari e viale Colombo. Lì si facevano gli incontri, si parlava, si commentava, si auspicava la sperata vittoria, si criticava... Si chiedeva al vicino, spesso ignoto: "Tó chë décë? Chë fa ujë la Samba?"...
Oggi è così, come lo vedete. Di sicuro messo molto meglio, con i gloriosi colori della nostra città e della nostra squadra. Però un po' risento quell'odore di muffa, e la muffa sveglia i ricordi che tornano alla mente con piacere.
Una volta, al termine della partita, pochi passi prima del Pontino Lungo mio padre ed io incontrammo un signore, forse un marinaio. Salutò in maniera rustica ma rispettosa mio padre dicendo: "Oh, detto'!". Mio padre non ha mai conseguito nessuna laurea ma è sempre stato apostrofato e stimato così. Continuò: "Oh, detto', sci véštë ujë Clëmèndë? Cë vëli' 'na pëndórë dë chèllë chë sci datë a mè!"... Traduco: "Oh, dottore, hai visto oggi Chimenti? (il genius loci sambenedettese è fondamentalmente una costante revisione o devastazione delle parole, dei nomi, dei verbi, dei significati. Clëmèndë era l'attaccante Francesco Chimenti, la bandiera e l'orgoglio di quegli anni) Ci voleva una puntura di quelle che hai dato a me!". Spiego. Mio padre faceva l'informatore medico del farmaco, per cui a volte riceveva richieste di campioni e di consigli sulla salute, che lui volentieri dava e per i quali otteneva stima e gratitudine. Questo simpatico soggetto sottintendeva che a lui quelle pëndórë avevano fatto molto bene, forse ricostituenti, ed era certo che avrebbero potuto sortire un buon effetto anche su Chimenti che evidentemente non aveva fatto una prova brillantissima...
Ci rido ancora adesso, a quasi cinquanta anni dall'accaduto...
Se andate su SoundCloud i miei figli e i loro amici hanno tirato fuori questo...
https://soundcloud.com/giovani-raccontano/sets/samb?utm_source=clipboard&utm_medium=text&utm_campaign=social_sharing
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Aggiornamento del 22 giugno 2025:
sabato 20 luglio 2019
Cinquant’anni dopo l’arrivo sulla Luna 🌓 ripropongo il mio raccontino per i quaranta, la testa è la stessa...
lunedì 20 novembre 2017
Storpiare è il nostro Genius Loci

Il nostro amico romano divenne così "Jachib". Come sono nati i patronimici o soprannomi sambenedettesi? Così, più o meno. Conoscevo un vecchio che si chiamava Trasvallë, che era la devastazione del nome dell'antico stato sudafricano del Transvaal. C'era stato? Che c'entrava lui? Troppe domande...
martedì 1 luglio 2014
Ricordi di gioventù... gelata!
Ieri sono stato a Grottammare per lavoro. Sono andato in bicicletta e di ritorno, passando per le belle viette che arrivano al lungomare, mi sono imbattuto nella Gelateria Camelli.
giovedì 16 luglio 2009
Lo sbarco sulla luna - I miei ricordi (che probabilmente non interesseranno a nessuno, ma io lo dico...): astronavi, scuola, figli, hobbit...




