giovedì 22 settembre 2022

Una bella pagina di Fabrice Hadjadj: Ci sono dei cani in Paradiso?

Questa pagina che trovo molto interessante, l'ho trovata qui, sul sito dei Cinque Passi, del mio amico padre Maurizio Botta, e ce l'ha messa Benedetta Scotti, una brava ragazza che pure conosco. È del filosofo francese Fabrice Hadjadj ed è tratta dal suo libro Farcela con la morte (editrice Cittadella, Assisi 2009). La trovo significativa e molto in linea con il pensiero del mio carissimo inseparabile amico Chesterton quando dice:

"Intendo che Dio mi ordinò d’amare un determinato luogo e di servirlo, me lo fece onorare come potevo, anche con le mie eccentricità… Intendo che il Paradiso è in un certo luogo e non dappertutto; è qualche cosa di preciso e non già qualsiasi cosa. E in fin dei conti non sarei troppo stupito se ci fosse davvero un lampione verde, davanti alla mia casa, su in cielo".


(G. K. Chesterton, Le avventure di un Uomo Vivo)

Non fatevi ingannare dal titolo (qui possono scattare atteggiamenti rigidamente ideologici che impedirebbero la lettura o la priverebbero della sua profondità). Leggetelo e basta.

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In un pezzo di Yeats, un tale di nome Cornelius Patterson assiste alle sedute della Signora Henderson, una sensitiva abitata dallo spirito di una bambina che risponde al nome di Lulu. Il vecchio Signor Patterson “crede che ci sono delle corse di cavalli e di levrieri nell’altro mondo e lo desidera talmente tanto che si premura di essere sempre puntuale”. Un’anima austera potrebbe trovare il desiderio di questo personaggio ridicolo. Io lo trovo, al contrario, simpatico, segno di una certa giovinezza d’animo. Dei cani e dei cavalli in Paradiso, non mi sembra così strano. Perché non anche violette, ruscelli, libellule o tapiri? Il cardinal Journet si chiedeva, non senza un po’ di inquietudine, se in Cielo potremo ancora ascoltare una sinfonia di Mozart. Questo desiderio non è meno lodevole. Discutibile è invece l’attitudine di colui che non aspira a trovar nulla nell’altro mondo di quel che ha visto in questo mondo. Sarebbe indice del fatto che non ne ha percepito la bellezza. Le sue esaltazioni spirituali non sarebbero che la maschera di una profonda depressione: il suo slancio verso il cielo, il risentimento verso le cose della terra; e il suo altro mondo, un vuoto, giacché non ci sono due mondi separati, ma l’uno è causa dell’altro. Disprezzare l’uno equivale a disprezzare l’altro. A quest’anima triste, il Creatore non può dire come al buon servo: “Sei stato fedele nelle piccole cose, ti darò autorità sulle grandi: entra nella gioia del tuo padrone”.

Cornelius Patterson non è il solo a sperare in cavalli e levrieri. Il poeta Francis Jammes prega di poter entrare in Cielo con gli asini. E rivolge questa preghiera per il suo fedele cane: “Mio Dio, se mi concedete la grazia di vederVi faccia a faccia nei giorni dell’Eternità, fate che questo povero cane contempi faccia a faccia colui che fu il suo dio tra gli uomini”. Chi riduce questa supplica al sentimentalismo di una comare inacidita, che riversa ogni affetto sul proprio bassotto, è animato da un’acredine ancora più grande. La tristezza piena di fiducia che cogliamo negli occhi di certi cani, non ci volge forse verso qualcosa che va oltre la materia? E questa violetta selvaggia, sul ciglio del sentiero, che spunta rispondendo all’appello della primavera, e queste foglie di fico che nel mio giardino si aprono come piccole mani verdi per cogliere la luce, non sono niente, è vero, eppure sono tutto: poiché queste piccole cose sono belle, desideriamo vederle in grande, e vediamo allora l’Infinito costellato di violette selvatiche e di queste foglie di fico che furono il nostro primo indumento. […] E questo non vale solamente per i fiori e gli animali, vale anche per gli oggetti quotidiani: questa tazza scheggiata, sfiorata così tante volte dalle labbra di mia moglie e delle mie figlie, chissà che non la ritrovi in cielo, con la sua spaccatura divenuta luminosa. E che dire di quel bicchiere che catturava così bene il sole nel refettorio dell’abbazia di Solesmes? Una strana nostalgia mi coglie di fronte ai giocattoli con cui i bambini non giocano più: vi percepisco l’attesa sofferente di un mondo in cui ogni cosa sarà riparata e avrà il suo posto. Se anche gli oggetti vogliono sopravvivere all’usura, che dire degli uomini? Che dire degli istanti passati insieme? Il sorriso di mia nonna, così raro, così chiaro, così infantile tra le rughe della sua neurastenia. Il viso di mia figlia a due anni attraverso la finestra del bagno illuminata dalla luce mattutina. Il momento in cui mia moglie ha pianto il suo dolore sulla mia spalla e nelle sue lacrime ho visto l’amore che non passa. Tutto ciò non vuole finire. Tutto ciò – anche questo momento in cui scrivo e sento le voci dei bambini che giocano intorno al monumento ai caduti – chiede di durare. E le ultime parole del Credo apostolico rispondono ai desideri più segreti del mio cuore: “Credo alla resurrezione della carne, alla vita eterna, amen”. Come non amare indefettibilmente la Chiesa che ci spinge a proclamare quello che non osiamo neanche sognare nel più profondo di noi stessi? “Voglia tu credere che l’ultimo giorno, le ceneri risollevate dallo Spirito obbediranno all’ordine di ricostituirsi. E rivedrai tua figlia che reca in mano ciliegie e margherite; e tuo figlio che legge il giornale nel giardino dove si sente il rumore della lavatrice; e la tua giovane moglie la cui guancia sarà dolce come il mattino”.

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