domenica 19 novembre 2023

Tre gassose.

Eccola com'era...!


Estate, forse dell'anno 1970, massimo 1971. San Benedetto del Tronto, la mia bella città, in estate è splendida e sempre piena di sole. Giugno, luglio, agosto, ho solo ricordi di giornate inondate di sole e di luce che accende i colori, mare azzurro, sabbia calda, palettina e secchiello.

Il rituale era semplice: partivamo da casa a piedi, da via Carducci 29, e raggiungevamo la stazione ferroviaria, non troppo distante. Lì prendevamo il bus urbano, che mia madre ancora chiamava "il postale". Era verde, mi pare che la ditta che faceva il servizio si chiamasse Romanelli. Mi piaceva quell'ondeggiare appesi al palo, e il campanello che mamma suonava per ricordare all'autista la nostra fermata. Il bigliettaio con la borsa di cuoio nero, la camicia azzurra e il berretto, bello in carne, incastrato in quella specie di scranno da cui distribuiva pacifico i bigliettini. 

Andavamo allo stabilimento "Il Delfino", sottotitolato in sambenedettese "Lu Talafé". Avevamo l'ombrellone e la cabina, arrivavamo e mamma mi diceva: "Aspetta un po' prima di farti il bagno...". Mai capita la ragione di quest'attesa, ma comunque rendeva il bagno più - appunto - atteso. So che oggi è una cosa sconosciuta e incomprensibile ai più. Finalmente arrivava l'ora del bagno, tuffi, giochi con la sabbia, tuffi ancora, e poi si usciva, asciugamano, cambio del costumino, pizzetta bianca e gassosa.

La gassosa era ovviamente la gassosa Roncarolo, prodotta a San Benedetto del Tronto dalla ditta di colui che fu uno dei più rispettati presidenti della Sambenedettese Calcio. Ricordo le bottiglie trasparenti, le prime erano rigate all'esterno, con la scritta impressa sul vetro, poi più avanti divennero lisce. È facile dire che oggi mi sembra di risentirne il sapore. Con la cannuccia d'ordinanza (erano incartate e speravo sempre mi capitasse il colore preferito), era il momento più bello della mattina passata al mare, poco prima di andare a casa per il pranzo.

La gassosa la compravamo al mare, allo stabilimento, costava cinquanta lire credo. Si andava vicino alle cabine dove c'era un frigorifero a pozzetto di quelli alimentati da quelle colonne di ghiaccio che una volta si fabbricavano vicino al porto, quindi non azionati elettricamente. C'era un ombrellone o una specie di tettoia, e lì c'era lui, l'Unglesë.

Questo nome stava scritto in piccolo in un angolo del già citato cartello dello stabilimento: "Da l'Unglesë".

"Da L'Unglèsë" e "Lu Talafé" davano un senso di esotico a tutto, per me bambino. La persona citata merita poi un discorso a parte.

L'Unglesë doveva essere un marinaio in pensione. Per me era alto, non so quanto lo fosse veramente, e la sua figura torreggiava burbera sulla spiaggia. Pantaloncini corti di tipo militare beige scoloritissimi tanto da sembrare un reduce di El Alamein, canottiera di lana scura tutta l'estate (mamma la chiamava "la majë dë la salótë", la maglia della salute... mah), pelle raggrinzita del colore del cuoio, stempiato, la bocca perennemente piegata verso il basso in una smorfia non si capiva se scorbutica o sprezzante o semplicemente perché quella era la piega della sua bocca, e gli occhi coperti da due palpebre così spesse che non si intuiva mai se vegliasse o stesse dormendo. Ma non dormiva.

Girava con un motorino 50 con dei resti di colore rosso, tipo un Guzzino o qualcosa del genere, con una cassetta del pesce di color crema presa al mercato ittico del porto e munita dello stemma comunale rosso e blu, legata con una specie di "ragno", fisso, sempre, una specie di portapacchi artigianale molto diffuso dalle nostre parti.

E poi quel nome...

Non si capiva se era dovuto al fatto che biascicasse qualche parola di inglese, o se tra i mille mari navigati ne avesse visti anche dei colori dell'Union Jack o più semplicemente se parlasse in un modo talmente incomprensibile da sembrare appunto inglese. Io avrei giurato si trattasse della terza ipotesi.

Non ne ho mai saputo il vero nome.

Allora, dopo il bagnetto e tutto il resto andavi da lui con le cinquanta lire in mano, chiedevi una gassosa, lui la tirava fuori dal pozzetto con il ghiaccio a colonna e te la stappava seduta stante con uno stappabottiglie appeso ad uno spago da qualche parte, e poi ti ci schiaffava dentro la cannuccia, e tu pago di tanto piacere andavi via felice. Quasi sempre.

Noi bambini sambenedettesi sapevamo che dovevi limitarti a dirgli il numero delle gazzose che volevi, e lui ti accontentava, togliendoti di mano gli spicci che ti aveva dato mamma, brusco come tutto era brusco in lui. D'altronde si capiva che non era tipo da intavolare conversazioni. 

I problemi nascevano da richieste "originali" o da altri intoppi. 

Quella mattina fu segnata da un piccolissimo intoppo.

Eravamo in fila indiana davanti a lui. Davanti a me c'era una bambina dai capelli scuri, piccolina, partita fiduciosa. Io dietro con il mio soldino. 

La piccola si avvicina e chiede a L'Unglesë nel suo parlare: "... tre gaszòszeee..." (tre gazzose pronunciate con accento di qualsivoglia dialetto italiano di derivazione celtica: lombardo, veneto, "dell'Àlditalië", ossia dell'Alta Italia, eccetera...).

L'Unglesë: "Chë vu'?!?".

La povera bambina prova ad insistere con voce che si fa tremante: "Tre gaszòszeee!".

Io dietro di lei - forse ero più grande di lei, comunque non avevo più di sei anni, ne sono certo - sarei anche intervenuto, ma prudentemente tacqui.

L'Unglèsë insiste col medesimo tono, forse leggermente più perentorio: "Chë vuuuu'?!?".

La poveraccia gli fa, ormai in lacrime: "Tre gaszòseeee!!!".

Lui la riguarda con uno degli occhi normalmente semichiusi che si fa leggermente più aperto, lei a quel punto scappa a gambe levate piangendo verso la mamma. Io dietro: "Una gassosa!!!" con un tono da sergente di giornata, forte e chiaro, e con le cinquanta lire sciolte sulla manina. Gassosa schiaffata nell'altra mano con la cannuccia d'ordinanza e via, evaporo con nonchalance ma leggermente scosso anche io. Però un po' mi viene da ridere, poi.

Sono passati più di cinquanta anni ma ho ancora vivo davanti agli occhi l'episodio e ci rido, ci rido a crepapelle tutte le volte che lo rivedo scorrere nella mia mente immersa nel sole dell'infanzia. Il nostro eroe dei sette mari che era nato e cresciuto ruvido, e sempre ci rimase, né più e né meno di tanti nostri concittadini, per me rappresenta una specie di fumetto, di ritratto dei nostri marinai, abituati più a discutere col mare e col vento e a gridare potenti maledizioni a lu scijò. Razza in via d'estinzione, purtroppo. La bambina chissà dove sarà, forse ancora scappa, poverina. Io sono qui, contento di essere nato e cresciuto in questo porto di mare pieno di sole e di una certa sana ignoranza.

San Benedetto del Tronto
e la sua spiaggia in quegli anni


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